Yodit Abraha

Il mio nome è Abraha Yodith sono nata il 12 dicembre del 1973 ed ho 39 anni. La migrazione fa parte del mio DNA. I miei nonni si spostarono dall’Etiopia all’Eritrea, ad Asmara dove sono nata. Avevo 13 anni quando i miei genitori decisero di partire per la Sicilia. Posso dire di sentirmi una macedonia, con una sua identità composta di tante diverse appartenenze.

Le discriminazioni più pesanti le ho subite da piccola. Per questo mi ero completamente immersa nel contesto culturale in cui ero arrivata. Essere un’adolescente, una giovane donna straniera, voleva dire essere una poco di buono. Per questo cercavo di nascondermi, evitavo di truccarmi in maniera vivace. Alle medie e alle superiori ero l’unica ragazza di colore. Tra il 93 e il 94 ho iniziato a frequentare la facoltà di psicologia. Ma prima di arrivare a Palermo ero piena di aspettative: “All’università ci vanno tutti” mi dicevo, ma ero l’unica ragazza di colore anche lì. Ancora pregiudizi da affrontare, dunque, fino a che un giorno, ti accorgi di essere cresciuta e di avere le spalle un po’ più larghe.
Ma non ho mai smesso di lavorare fin dal primo anno di studi universitari: ho iniziato a fare la baby-sitter, la badante, la domestica, fino a che non sono entrata nel mondo del sociale.
E mi giunge voce di un corso per divenire tutor per l’orientamento professionale agli stranieri. Ero convinta di non essere assolutamente in grado di poter fare una cosa simile. Quel corso, che ho sostenuto con uomini e donne straniere mi ha consentito di tornare alle mie radici, di fare un percorso all’indietro. Adesso sono innamorata del lavoro che svolgo, sono psicologa, educatrice e mediatrice: non diventerò mai ricca, anzi sempre più povera, ma mi sento al mio posto.

Purtroppo in Italia non c’è l’abitudine, non c’è l’esercizio a sentirci tutti cittadini. Quando gli italiani mi sentono parlare si stupiscono che sappia parlare bene l’italiano. Allora penso: “Ma è la mia lingua, come dovrei parlare?” Quando sono gli stranieri ad ascoltarmi, vedendomi lavorare in un ufficio pubblico, sono convinti che io sia stata adottata o che abbia padre o madre italiani. Mi dicono che ho una sola fortuna, di avere dell’Africa solo la pelle nera. Una volta piangevo. Adesso sorrido.

A cura di Arci Sicilia

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