Diana Radu
Mi chiamo Diana Radu, sono nata nel 1987, sono di nazionalità moldava e sono venuta in Italia nel 2006, cioè cinque anni fa.
Fin da piccola sognavo di andarmene in un qualsiasi posto del mondo pur di lasciare quello in cui vivevo. Certo ci sono luoghi belli in Moldavia, ma la miseria è tanta e se nasci in campagna, in campagna resti. Anche se hai molte capacità, non riesci a svilupparti: per studiare occorrono soldi e puoi averli solo se un parente emigrato te li manda, altrimenti non studi e resti a casa. Se riesci a studiare, fai poi fatica a trovare un lavoro, come mia cugina che è giornalista, ma non è riuscita ad avere un’occupazione; e se anche la trovi, lo stipendio è così basso che non basta per vivere.
Molti moldavi sono emigrati in Russia e nell’Unione europea, ma non puoi certo, se resti, farti mantenere per tutta la vita dall’estero. In Moldavia poi c’è una mentalità ristretta ed il potere è in mano agli anziani che decidono da “vecchi comunisti”: a loro basta un pezzo di pane ed un piccolo aumento di una pensione misera. Per viaggiare in Europa occorre un visto piuttosto costoso e finisci proprio per sentirti prigioniero a casa tua.
Io sognavo fin da ragazzina di fare l’interprete o la giornalista, anzi la corrispondente da un altro Paese e proprio per realizzare questo sogno mi sono molto impegnata nello studio ed ho frequentato il liceo umanistico, che corrisponde al liceo linguistico italiano. Era la mamma, partita per l’Italia e badante, a mantenermi agli studi e mi avrebbe fatto frequentare anche l’università, molto costosa per me, ma è successa una cosa terribile: mamma si è ammalata, è stata operata alla testa e per un lungo periodo non ha più potuto lavorare. Se fosse tornata in Moldavia, la mia vita sarebbe stata un inferno, invece è rimasta in Italia, ha trovato di nuovo lavoro grazie ad un’amica e mi ha portata qui a Bologna.
Sono arrivata nel 2006 e il terzo giorno sono andata anch’io a lavorare con il pensiero di mettere da parte i soldi per aiutare mio marito a venire qua. E lui dopo sei mesi è venuto. Ci conosciamo da sedici anni e stiamo bene insieme. I primi tempi in Italia non sono stati facili, né per il lavoro, né soprattutto per i documenti, innanzitutto la residenza e il permesso di soggiorno.
I documenti sono sempre un gran problema, dovunque andiamo ce li chiedono e sono stati un problema anche quando è nato mio figlio. È nato nel 2008, a febbraio compie quattro anni, e sono contenta di lui, parla solo italiano, il moldavo non lo vuole parlare, non so se perché non gli piace o per capriccio. Io e mio marito abbiamo pensato e deciso di restare per sempre in Italia, vogliamo che nostro figlio abbia un futuro e che prenda la cittadinanza italiana. Ora va all’asilo, ha tanti amichetti e tutto quello che sa ed impara è dell’Italia. Quando è nato, abbiamo visto un paio di nomi e deciso di chiamarlo Italo e non solo perché nato qui, ma proprio in onore dell’Italia, perché qui ci siamo trovati bene: a me piace tutto, il modo di parlare, come si vive, la gente, anche se non ho molte amiche, incontro tante persone, ma ho difficoltà a sentirle amiche, forse perché ho avuto molte delusioni.
L’Italia mi piace, mi piace leggere la sua storia, conoscere la sua cultura e soprattutto ci piace Bologna: abbiamo avuto occasione di trasferirci in un’altra città, ma ci abbiamo rinunciato, perché Bologna è molto bella e quando siamo lontani proviamo nostalgia. Abitiamo in centro e non riusciamo neppure a trasferirci fuori città. Non so se la mia mamma, che ha cinquant’anni, pensa alla cittadinanza italiana, e non so neppure se ci pensa mia sorella, che vive qui ed è sposata con un rumeno; ma io e mio marito sì che ci pensiamo! Noi due ed Italo non ce ne andremo e diventeremo italiani e la raccolta delle firme de “L’Italia sono anch’io” ci può certamente aiutare.
Qui noi stiamo bene e lavoriamo: mio marito mette il parquet nelle case e gli piace, io lavoro per qualche ora come assistente a una signora; ma soprattutto, dopo essere stata paziente a Sokos (associazione gratuita di assistenza sanitaria per migranti), mi sono offerta come volontaria e ogni settimana per un giorno realizzo il mio sogno di interprete. Accolgo persone in difficoltà, riempio la loro cartella clinica, spiego come muoversi in città, traduco per loro alla dottoressa e per la dottoressa a loro, e mi sento davvero utile e felice. Incontro tante Moldave ed ho potuto aiutare anche una persona molto malata che vive per strada e non conosceva una parola di italiano.
Un giorno è accaduta una cosa molto divertente: è venuto mio marito in ambulatorio e mi ha vista al lavoro, sicura e disinvolta, io soprattutto gli ho fatto da interprete, avendo lui ancora difficoltà con l’italiano, e lui mi guardava, mi guardava come se non credesse che ero proprio io. Poi è corso a casa a dirlo ai parenti e lo racconta a tutti gli amici. Anche mamma un giorno mi ha vista lavorare a Sokos, anche lei mi guardava ed era molto fiera di me e, quando sono tornata a casa, mi ha trattata come una principessa. Loro sanno com’è difficile inserirsi e mi ammirano. Io spero di poter fare la mediatrice culturale anche in tribunale, in ospedale, dovunque c’è bisogno.
A cura di Arci Bologna e dell’Associazione Aprimondo