Atiqa

Mi chiamo Atiqa ed avevo 8 anni quando, nel 1993, sono venuta in Italia con mia mamma ed i miei fratelli, in quanto mio padre, già qui da anni, aveva vinto il ricongiungimento familiare. Vinto, così dalla mia famiglia era stata vissuta l’incerta attesa della partenza tanto sognata: ci sembrava di partecipare ad una lotteria e finalmente il nostro nome era stato estratto.

In Marocco molte volte avevo immaginato l’Italia, questo paese assumeva caratteri fiabeschi e vedevo giardini fioriti e case bellissime con tante stanze e bei mobili. In Italia mi ha accolto invece una vecchia, cadente e fredda abitazione in una desolata campagna autunnale e non dimentico i pomeriggi passati a letto vestita sotto le coperte alla ricerca di calore. Non ho voglia neanche ora di parlarne. È stato molto, molto difficile!

Alla scuola elementare, però, con i compagni e le maestre è stato davvero bello: tutti mi hanno accolta e l’italiano l’ho imparato in fretta e bene; mi è piaciuto subito, non ho avuto paura, le parole mi scivolavano facilmente fuori dalla bocca. Imparavo e giocavo, mi sentivo bene. I problemi sono iniziati alla scuola media, dove il mio velo sembrava suscitare ripugnanza; mi chiamavano figlia di Ochalan (il terrorista turco, di cui in quel periodo molto si parlava) e, soprattutto, ero ritenuta, anche da alcuni professori, diversa dagli italiani ma uguale a due compagni pakistani vicino ai quali mi chiedevano di stare. Io del Pakistan non sapevo nulla, ma neppure gli altri che lo confondevano col Marocco. Alle superiori è cambiato tutto: nessuno più mi faceva domande stupide sul velo e mi sentivo accettata per quella che ero.

Ora sono una donna di 26 anni, sono sposata e ho due bambine. Sono in Italia da quasi vent’anni, ho vissuto qui ogni fase della vita da quando avevo 8 anni, qui sono nate le mie figlie e non voglio che loro abbiano i miei stessi problemi. Sia io che loro abbiamo diritto ad essere considerate italiane ed è assai umiliante continuare a pagare soldi per vedersi periodicamente riconosciuta la possibilità di restare nel nostro paese.

Da tempo ho presentato domanda di cittadinanza e pagato 200 €, ma ancora sono solo marocchina. Mi dicono che devo avere pazienza – sempre mi è stata chiesta pazienza – ma io desidero che si parli di diritti, per questo la raccolta firme de “L’ Italia sono anch’ io” mi fa tanto piacere. Sono proposte di legge che tengono conto dei nostri diritti e vogliono attuarli.
Io ne parlo con tutti e mi capita di dover smentire le voci che circolano da un po’ secondo le quali, già ora, i bambini che nascono in Italia sono cittadini italiani. Se n’ è parlato in tv per le dichiarazioni del Presidente della Repubblica e qualcuno ha scambiato intenzioni per realtà. Tanto è il desiderio che facilmente ci si illude. Io cerco di fare la mia parte e sono molto attiva nel sociale, faccio parte di un’associazione di donne musulmane che lotta per l’integrazione organizzando incontri sul territorio e nelle scuole per rispondere a tutte le domande delle persone sull’Islam e la cultura araba.
Bisogna farsi conoscere per far cadere i pregiudizi. Nonostante il mio impegno però, non posso neppure votare nel mio comune di residenza e neppure essere eletta. La Consulta non basta, è un organo di serie B, visto che non partecipa ad alcuna decisione.

Le cose cambieranno, ne sono certa, ma vorrei che succedesse in fretta, soprattutto per le mie figlie. Di loro mi preoccupo davvero tanto.
Ora basta, devo andare a preparare il pranzo: penne al pomodoro e cotolette.

A cura di Arci Bologna e dell’Associazione Aprimondo

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